Evviva il nuovo ponte. Nella speranza che i lavori siano completati in estate, vedere ricongiunti levante e ponente fa sperare in una ritrovata normalità, pur nel mezzo di una pandemia.
E mentre infuria la gara a trovargli un nome, c’è un nome che sarebbe meglio non avesse, se si vuole essere onesti, se non si vuole campare di illusioni.
Non chiamiamolo Modello, perché la ricostruzione del viadotto Polcevera è frutto di elementi difficilmente ripetibili.
Il primo è la tragedia. L’unità di intenti che si è realizzata intorno alla ricostruzione nasce dal disastro del 14 agosto, dalle 43 vittime, dalle centinaia di sfollati, dalle migliaia di genovesi che hanno veduto peggiorare di colpo le proprie condizioni di vita. L’esigenza di giustizia per le vittime innocenti, e di riscatto dal crollo simbolo del fallimento di un Paese, ha determinato in Parlamento e nell’opinione pubblica una tensione morale e uno spirito unitario che hanno giustificato misure straordinarie e senza precedenti.
Il secondo elemento è appunto la deroga ad ogni regola. Demolizione e ricostruzione sono avvenute senza alcuna gara. La scelta del progetto e delle imprese è stata operata senza trasparenza e senza motivazione. I progettisti e le imprese escluse non hanno fatto ricorso proprio per quello spirito di unità del Paese che informava la reazione al disastro. Ma può essere un modello ripetibile? Se è auspicabile e necessario prevedere percorsi burocratici più rapidi per le opere strategiche, un Paese libero non può predicare la totale assenza di concorrenza e trasparenza negli appalti pubblici. Applicato su larga scala il modello Genova assomiglierebbe al modello sovietico, che non risulta avere funzionato.
E poi c’è il terzo elemento, decisivo tanto per la riuscita della ricostruzione del Ponte quanto per l’irripetibilità del modello. Un committente che non bada a spese. Il committente di fatto della ricostruzione non è lo Stato ma Autostrade per l’Italia, obbligata a pagare tutto senza fiatare, sotto concreta minaccia della revoca delle concessioni. E’ un fattore chiave, che ha consentito di superare le difficoltà che normalmente intervengono in cantiere, e di sostenere il lavoro 24 ore al giorno, su più turni e in parallelo tra demolizione e ricostruzione.
Per lavorare veloci servono soldi, che gli enti pubblici generalmente non hanno. Basti pensare che per velocizzare i lavori di Lungomare Canepa l’anno scorso il Comune ha dovuto spendere i denari della riqualificazione di Cornigliano.
Il nuovo ponte, qualunque sarà il suo nome, è una gran bella notizia per Genova, una mirabile opera di ingegneria, e il risultato dell’ottimo lavoro di operai, tecnici e di tutte le maestranze. Ma non è un modello, neppure per reagire alle calamità, a meno che non si trovi come in Val Polcevera un soggetto disponibile ad accollarsi ogni spesa.
Un Paese che ha imparato la lezione del Morandi dovrebbe interrogarsi su come costruire un altro modello. Quello in cui regole ordinarie consentono di realizzare opere pubbliche e di manutenerle. In tempi certi e costi ragionevoli.
Sarebbe il miglior modo di onorare la memoria delle vittime, la fatica dei lavoratori, la sofferenza dei genovesi. Sarebbe il modello Genova, di cui tutti parlano, ma che oggi non c’è.
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