Le iniziative di commemorazione per i vent’anni dal G8 di Genova ci ricordano come la nostra città e il nostro Paese abbiano operato una sorta di rimozione dei giorni di luglio del 2001.
Una rimozione iniziata pochi mesi dopo, con quell’11 settembre che ha cambiato il mondo, e proseguita nel gioco dell’oca dei processi penali, che hanno condannato pochi responsabili con estremo ritardo e senza fare emergere la verità complessiva.
Una rimozione che ha riguardato soprattutto il giudizio politico su quanto è accaduto nella nostra città tra il 19 e il 21 luglio 2001.
Per la generazione che non ha vissuto la Resistenza, il 30 giugno del ’60 e gli anni di piombo, il G8 ha rappresentato la prova empirica che in una società democratica non c’è nulla di acquisito. Che i diritti costituzionali, la libertà, le garanzie possono essere sospese nei fatti, senza che quasi nessuno paghi per davvero.
Sotto il sole di luglio, districandosi tra grate saldate, muri di container e forze dell’ordine in assetto antisommossa, i ventenni di allora hanno avuto ben chiaro di quale fragilità fossero le fondamenta della nostra società. E quali responsabilità avesse una destra al Governo del Paese che ha assecondato, se non favorito, la sospensione della legalità.
Non è un esercizio filosofico. A Genova, fino al 2001, non era normale avere paura della Polizia. Per chi è stato educato nei valori repubblicani della libertà dell’uguaglianza e del primato della legge, il G8 di Genova è stato innanzitutto il tradimento di quei valori da parte degli uomini e delle donne dello Stato.
Al vertice di quel tradimento c’era la politica di allora, presentissima a Genova tra zona rossa e centri operativi a consentire un’azione di repressione eversiva.
Non è un’opinione. E quello che emerge dall’irruzione illegale alla Diaz, dalle torture di Bolzaneto e dagli altri frammenti di verità accertati in via definitiva dalla magistratura.
La successiva rimozione fondata su una falsa idea di pacificazione ha consentito che i responsabili di quei giorni si facessero scudo delle vetrine infrante, dei sampietrini, degli estintori, per difendere l’indifendibile.
E ha impedito alla politica di chiamare le cose con il proprio nome, di confondere, di annacquare. Ha perfino consentito a Claudio Scajola di stigmatizzare vent’anni dopo quanto è avvenuto alla Diaz o a Bolzaneto, come se non fosse stato lui il Ministro degli Interni.
Dopo vent’anni resta l’anomalia di un giudizio mai elaborato sui fatti del G8. Un po’ perché la destra italiana anche quando si mette la cravatta non ha mai mancato di accarezzare le frange eversive. Un po’ perché la sinistra, in quei giorni, non aveva ben chiaro se era meglio partecipare o stare a casa.
Il nostro Paese non ha mai fatto i conti con il G8. Lo Stato non ha mai chiesto scusa a quelle mani pitturate di bianco, a quella moltitudine che non chiedeva niente per sé, ma voleva giustizia sociale per il mondo intero.
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